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Le Fiat non si rompono mai, Calabresi lascia Repubblica. Cambiano i padroni, l’ipocrisia resta intatta


Alcuni anni fa, quando in via Marenco a La Stampa si faceva il cosiddetto giro serale delle pagine, cioè quello per ottenere dai capi il visto per la stampa, un vicedirettore legge un mio pezzo sui riflessi che la crisi economica aveva sulla vita di tutti i giorni della gente e nota che ho scritto qualcosa che non gli piace. Avevo sentito un’operaia che diceva che non aveva nemmeno più i quattrini per far riparare la sua vecchia Fiat Panda. Il vicedirettore prende una matita rossa e tira una riga su Fiat Panda. E mi dice: “Scrivi automobile, le Fiat non si rompono mai”.

Perché racconto questo? Perché c’è uno stile intatto nei decenni, un modo quasi infantile, un voltarsi dall’altra parte dei giornalisti quando una notizia imbarazzante coincide con gli interessi del padrone. E’ accaduto anche ieri con il licenziamento di Calabresi dalla direzione di Repubblica. Era chiaro a tutti, fin dal primo lancio dell’Ansa, che il direttore era stato silurato dal suo padrone. L’aveva twittato lo stesso Calabresi, che avrà molti difetti di gestione, ma non è certo un fesso di giornalista. E se il direttore in persona scrive che le sue dimissioni le hanno decise gli editori proprio ubriaco non doveva essere.

A complicare la notizia ci si sono messi anche i fratelli De Benedetti, che per ragioni ancora ignote, hanno messo alla porta in quattro e quattr’ otto il loro direttore. La nota ufficiale stringatissima, e gelida come un blocco di ghiaccio, è stata diffusa soltanto stamattina alle 11,06.

Il riflesso di quell’ipocrisia intatta nei secoli è oggi sui due principali quotidiani del gruppo Gedi. La Repubblica ignora del tutto la notizia, mentre il Cdr a pagine 27 ringrazia il proprio direttore per il lavoro svolto. Se un lettore non sapesse niente e leggesse soltanto il comunicato sindacale,  potrebbe pensare che Calabresi si è dato alla fuga in qualche isola del Pacifico. Invece, è soltanto da qualche parte a sbollire il nervoso.

Il secondo quotidiano del gruppo, ovvero La Stampa, non ignora la notizia, ma la pubblica sbagliata, o meglio girata secondo le esigenze della Casa Madre e titola: “Calabresi lascia Repubblica”. E invece di riportare una fonte ufficiale del gruppo, fa riferimento al lancio dell’Ansa. Insomma è l’Ansa che ha detto che Calabresi è andato via di sua spontanea volontà. Noi che ci possiamo fare?

E’ il Grande Circo dell’Ipocrisia, ieri le Fiat non si guastavano mai, oggi Calabresi si è dimesso volontariamente, domani. Qualcuno potrebbe chiedermi se lo scopro solo adesso. No, ma ogni volta che capita mi girano i coglioni.

 

Questa la nota ufficiale di Gedi.

COMUNICATO STAMPA


GEDI GRUPPO EDITORIALE S.P.A.

Direzione di Repubblica

 

Roma, 6 febbraio 2019 – Si é riunito in data odierna il Consiglio di Amministrazione di GEDI Gruppo Editoriale che ha nominato Carlo Verdelli direttore della testata la Repubblica, in sostituzione di Mario Calabresi, che ha diretto il giornale nel corso degli ultimi tre anni.

Il Consiglio di Amministrazione ha espresso il proprio ringraziamento al direttore Calabresi per l’impegno profuso nel corso del suo mandato, in un contesto di mercato senz’ altro difficile e sfidante.

Carlo Verdelli assume la direzione forte di una solida esperienza in ruoli di vertice in testate e realtà editoriali di rilievo, in cui si è distinto per capacità di direzione e talento innovativo. Il Consiglio di Amministrazione ha formulato a Carlo Verdelli i migliori auguri di buon lavoro e di successo.

 

Fonte: Giorgio Levi

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Addio Palazzo dei giornali.


A Milano cala il sipario su un simbolo                della città.

Piazza Cavour, Palazzo dei giornali, un simbolo di Milano. Se ne sono andati tutti, o quasi. Cala il sipario su un’epoca leggendaria di Milano.

Tra nostalgia e ricordi, l’epopea della carta milanese, e non solo, in questo pezzo di Stefano Giani su Il Giornale. E’ tutto da leggere.

Disprezzo o curiosità. Il palazzo dell’informazione era visto così. Costantemente punteggiato di luci accese giorno e notte attirava il rancore dei detrattori, che consideravano i giornalisti contaballe privilegiati.

L’invidia del fascino di entrare gratis dove tutti pagavano. Il potere della penna anche se in realtà era la macchina da scrivere. «L’ho letto sul giornale». E c’era la voglia di entrare. Sentire il rumore delle redazioni quando il ticchettio dei tasti mandava tutti a casa con il mal di testa ma la certezza di aver scritto davvero.

Il giornalismo come Giano. Due facce. Chi avrebbe ammazzato la madre pur di non finire in pagina e chi avrebbe ammazzato la madre pur di vedere un titolo tutto per lui. Non importa se perbene o per male. Milano spesso si assiepava lì. Aspettava notizie. Come quella sera del 12 dicembre, quando una bomba sventrò piazza Fontana e voleva saperne di più. Piangeva. E aveva paura. Erano gli anni degli «strilloni» che partivano da lì e attraversavano la città urlando a squarciagola il quotidiano del pomeriggio. «La notteee». O la notizia di prima pagina. Le grida iniziavano verso le cinque. Pony express d’antan rifornivano di pacchi di copie i ciechi seduti sugli sgabelli pieghevoli in Galleria. Loro strillavano e vendevano. La Notte «chiudeva» alle 16. A quell’ora i giornalisti uscivano da piazza Cavour 2 per andare a nanna. Teoricamente. Perché dopo dodici ore esatte avrebbero ripreso il lavoro. Un ritmo da panettieri per raccontare la notte. Quella in cui nessuno vegliava. La bomba esplose di pomeriggio e La notte fece gli straordinari. Nel senso del lavoro. E delle edizioni.

A volerla fu un industriale cementiero bergamasco, Carlo Pesenti, che scelse un cronista sportivo di lungocorso per dirigerlo. Famoso ma non famosissimo, Nino Nutrizio era un dalmata piovuto sotto la Madonnina dove avrebbe sposato l’etoile Luciana Novaro. La celebrità se la costruì in quel palazzone. Entrò per la prima volta come redattore de Il popolo d’Italia, il quotidiano fascista che dal ’42 abitò in quello stabile, un tempo sede del Politecnico, dal ’27 trasferito in piazza Leonardo da Vinci. Il Duce volle una sede imponente per il suo giornale e «el Nutrisio» quando varcò la soglia mai si sarebbe immaginato che un giorno anche lui l’avrebbe superata da direttore. Tipo spiccio e fulminante, fu definito «un uomo a caldo in questo mondo di pesci Findus» da un altro inquilino del palazzo. Montanelli vi cullò Il Giornale in quel giugno del ’74, dopo la fuga dal Corriere dove Giulia Maria Crespi, la poco amata «zarina» oggi presidentessa del Fai e allora autoritaria «padrona» di via Solferino, decise la sterzata a sinistra che sancì l’uscita di Indro. E gli stabilimenti tipografici del seminterrato da dove usciva odor di piombo e speranza sfornarono le prime pagine del quotidiano più odiato dai radical chic stile Inge Feltrinelli.

Quel giorno – era il 2 giugno 1977 – Montanelli uscì proprio dal portone dopo la riunione di redazione. Doveva raggiungere l’hotel Manin, dove alloggiava, quando le Br gli spararono. Erano pochi metri. A prolungarli pensò l’ambulanza che correva verso il Fatebene. Inge brindò. Pace all’anima sua. Molti anni dopo, un cronista di giudiziaria, a San Vittore per raccontare il carcere «inciampò» in un tale che gli sorrise beffardo. «Sei del Giornale, vero… Io l’ho conosciuto il tuo direttore». Franco Bonisoli era il terrorista che premette il grilletto. Il seguito continuate a leggerlo su queste storiche colonne che da piazza Cavour mossero i primi passi.

Il Giorno era già adulto quando traslocò. Anche lui con i suoi assi e quel Gioannbrerafucarlo con l’immancabile pipa per il quale le rotative della Same, cuore pulsante della protesta tipografica, era pur sempre disposta a qualche straordinario in più. Come i suoi direttori. Gaetano Afeltra cambiò soltanto il piano quando cedette il timone a Guglielmo Zucconi. E Giancarlo Vigorelli, uno dei più autorevoli critici letterari e specialista manzoniano, nel suo studio all’ala sinistra del palazzo sferrò l’attacco al guitto. «Anche Fo sa di avere in pancia l’incubo dei suoi trascorsi fascisti». Fu querelato dal futuro Nobel ma mantenne integra la reputazione. Riposa al Famedio.

A destra del bassorilievo di Sironi un corridoio prefabbricato e posticcio lasciava rimbombare i passi nel vuoto. L’eco stridula delle voci sincopate dei telex giungeva fin sulla tromba delle scale. Associated press. Adn Kronos. Ansa. Anche la patria delle agenzie di stampa aveva la sua «musica». Non avevano l’odore acre del piombo ma il sibilo delle trasmettenti di fotografie e notizie. Preistoria dell’età analogica. Oggi il silenzio non comunica più la frenesia dell’informazione. E dal palazzo, dopo Tuttosport, La stampa e Agi se n’è andata anche Adn Kronos. Ultimo baluardo. Ultima resistente. Cala il sipario. Sulla carta.

 

Intercettate buste con proiettili destinate ad Ansa e La Presse


Si tratta di 4 buste con 5 proiettili, indirizzate all’ex senatore torinese del PdStefano Esposito, al prefetto di Torino, Claudio Palomba, e alle agenzie di stampa La Presse e Ansa.

Sono state intercettate al centro per smistamento delle Poste di Torino, in via Reiss Romoli. Il materiale è stato sequestrato. Per ora non si conosce il testo delle missive. Sul fatto indaga la Digos.

L’episodio potrebbe essere legato alla Tav Torino-Lione, di cui Esposito è da sempre strenuo sostenitore.

Credits

La Presse